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Il cinema è la sua essenza: sofisticata, intensa, vera – Irene Antonucci


Ciao Irene, benvenuta su Victoria’s Grace. Per cominciare, ti andrebbe di raccontarci chi sei davvero, al di fuori dei riflettori?

Grazie dell'invito, è un piacere essere qui. Fuori dai riflettori sono semplicemente una donna in cammino, che ha imparato a fare della propria vulnerabilità una forza. Sono profondamente legata alla mia interiorità, alla natura, alla scrittura. Amo perdermi nei dettagli delle cose: un volto che racconta, una parola che vibra, un silenzio che guarisce. Ho attraversato momenti bui, come chiunque, ma ho scelto di non lasciarmi definire dalle ferite. Le ho ascoltate, trasformate e poi raccontate. Credo fermamente che la creatività sia un atto sacro, un modo per ricucire ciò che dentro di noi si era strappato. E oggi, al di là delle luci della scena, mi piace aiutare gli altri a riconnettersi con la propria essenza, con quella voce autentica che spesso si perde tra aspettative e maschere.

Che ricordi hai dei tuoi primi lavori da attrice in Italia?

Ricordo un periodo fatto di valigie sempre pronte, treni presi all’alba tra Roma e Milano, affitti condivisi, provini fatti tra un lavoretto e l’altro per pagare l’accademia. Era un tempo in cui ogni “sì” sembrava una conquista e ogni “no” pesava come una montagna. Ma avevo fame. Fame di verità, di arte, di senso.

I primi lavori sono stati più che esperienze professionali: sono stati luoghi di sperimentazione, ma anche di enorme fragilità. Stavo imparando non solo a recitare, ma a riconoscere la mia voce in mezzo a tante altre. Non è facile far spazio alla propria identità artistica quando attorno a te c’è rumore, competizione, aspettative. Ogni set, ogni palco, ogni casting diventava un confronto prima di tutto con me stessa.

Mi sono formata tra corsi di recitazione, dizione, drammaturgia comica... ma soprattutto mi sono formata nella solitudine degli spostamenti in treno, nei momenti in cui mettevo in dubbio tutto, quando i sogni sembravano più grandi di me. Sono stati anni intensi, di continua scoperta e ridefinizione. Non sapevo ancora chi fossi esattamente, ma sentivo che dovevo cercarlo attraverso l’arte.

La recitazione, in fondo, era (ed è) un modo per esplorare parti di me che nella vita ordinaria non avevo il coraggio di esprimere. Mi ha aiutato a conoscermi meglio, a capire che sensibilità e forza non sono opposti. Quegli anni sono stati duri, sì, ma anche pieni di vita. E a modo loro, perfetti.

Come ti prepari emotivamente per entrare nei panni di un personaggio? Hai un tuo metodo personale o ti ispiri a qualche tecnica specifica?

Nel mio percorso ho incontrato diverse tecniche che mi hanno lasciato qualcosa: dalla Meisner alla Chubbuck, passando per elementi dello Strasberg. Non seguo un metodo unico e rigido, ma integro quello che risuona con me e con il personaggio che sto affrontando.

La meditazione è per me un passaggio fondamentale. Mi aiuta a svuotarmi, a lasciare andare la mia identità per fare spazio a quella del personaggio. Cerco di pensare come lui o lei, di vivere con il suo respiro, i suoi traumi, i suoi desideri. Spesso inizio scrivendo da quel punto di vista, anche solo pensieri sparsi, come se fossi dentro la sua mente.

Non cerco mai di “interpretare” nel senso classico del termine, ma di vivere. Quando smetto di giudicare il personaggio, quando lo accolgo così com’è, allora inizia la magia. Per questo per me ogni ruolo è un’occasione per conoscermi un po’ di più. E anche per guarire parti di me che, altrimenti, non avrei mai guardato.



Hai una formazione filosofica: quanto questa base ti aiuta nella costruzione dei personaggi e nell’affrontare le storie da interpretare?

La mia formazione filosofica è stata fondamentale per modellare il mio approccio alla recitazione e alla creazione artistica. La filosofia mi ha insegnato a pormi domande profonde, a esplorare la natura dell’essere umano, delle emozioni e dei conflitti interiori. Questo mi ha permesso di andare oltre la superficie dei personaggi che interpreto, cercando di comprenderli nella loro complessità e di rappresentarli in modo autentico, senza etichette o semplificazioni.

Allo stesso modo, nella creazione artistica, la filosofia mi ha dato gli strumenti per analizzare la realtà da prospettive diverse e trasformarla in narrazione. Ogni progetto diventa un’opportunità per riflettere sui grandi temi della vita: la ricerca di senso, la libertà, le relazioni, il dolore e la crescita.

Non mi limito a raccontare storie: cerco di creare connessioni. Connessioni che possano toccare chi guarda, spingendolo a interrogarsi, a rispecchiarsi e, magari, a trasformarsi. In fondo, arte e filosofia condividono la stessa missione: ispirare consapevolezza.

E credo che oggi, più che mai, un artista abbia una responsabilità simile a quella di un filosofo: lasciare una testimonianza che possa illuminare, accompagnare, far riflettere. Per questo non interpreto mai un ruolo in modo “meccanico”: ogni personaggio, per me, è un viaggio di scoperta. E ogni opera, un ponte tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare.




Hai ricevuto diversi riconoscimenti importanti per il tuo lavoro da attrice. Cosa hanno rappresentato per te questi traguardi e come hanno influenzato il tuo percorso artistico?

Nella mia carriera artistica, non sono mai stata solo un’esecutrice, ma una vera e propria ricercatrice della mia autenticità. Essere un'artista, in questo contesto, non è soltanto un privilegio; è una responsabilità. Una responsabilità che ho sentito profondamente quando mi è stato conferito il prestigioso riconoscimento come ambasciatrice del cinema italiano in Sud America.




Una medaglia d’oro non è solo un simbolo, è un peso. È una domanda che si fa viva ogni giorno: come posso utilizzare la mia voce, la mia arte, per illuminare la vita degli altri e contribuire a un risveglio collettivo?

Ogni riconoscimento che ho ricevuto è stato un momento di grande gratitudine, ma anche di riflessione profonda. Non amo vedere i premi come semplici medaglie da esibire, quanto piuttosto come segnali che il lavoro svolto ha toccato qualcosa di autentico, dentro di me e nel pubblico.

Questi traguardi mi hanno confermato che seguire la mia autenticità e impegnarmi nella ricerca di storie significative ha un senso e può fare la differenza. Sono stati la forza che ha sostenuto i momenti di dubbio, quei momenti in cui è facile chiedersi se valga la pena continuare.

Però, i premi non sono mai stati un punto di arrivo: piuttosto, una spinta continua a migliorarmi, a crescere, a osare di più e a scegliere progetti che parlano al cuore e alla coscienza. Sono fari che illuminano la strada, ma la camminata la faccio ogni giorno con umiltà e passione.

In questo senso, i riconoscimenti mi hanno aiutata a capire che il mio percorso artistico non è solo una carriera, ma una vera e propria missione: dare voce a chi non ce l’ha, raccontare storie che aprano finestre su mondi nascosti, portare luce dove spesso c’è solo silenzio.








C’è un ruolo che ti ha cambiata o lasciato un segno profondo, anche fuori dal set?

Sì, senza dubbio. Il ruolo di Silvana in Domingo, el último esclavo (2024) mi ha lasciato un segno profondo, anche nella vita quotidiana. Silvana è una donna del 1840, una repubblicana europea che arriva in Colombia con l’obiettivo di liberare la schiavitù. Nonostante scoprire che il suo compagno ha una relazione con una giovane schiava, Silvana non si lascia sopraffare dal dolore. Anzi, decide di aiutare la ragazza e il padre di lei, condannato a morte, mettendo da parte il proprio cuore per perseguire una causa più grande.

Interpretare Silvana mi ha insegnato che, a volte, la nostra più grande forza sta nel mantenere saldi i nostri ideali, anche quando le emozioni personali ci sfidano. La sua dedizione alla giustizia e alla libertà mi ha ricordato l’importanza di avere sempre chiaro il proprio scopo, indipendentemente dalle difficoltà o dalle delusioni che incontriamo lungo il cammino.

Nel tuo percorso attoriale hai avuto esperienze anche all’estero. Cosa ti ha colpito maggiormente nel modo in cui si vive e si produce il cinema fuori dall’Italia?

L’esperienza internazionale è stata per me una vera scuola di vita e d’arte. Quello che colpisce subito è la grande apertura mentale e la varietà di approcci che si incontrano: ogni paese ha il suo modo di vivere il cinema, ma c’è un denominatore comune che mi ha affascinato moltissimo: la voglia di innovare e di raccontare storie autentiche, spesso con risorse molto più limitate rispetto a produzioni italiane o europee più consolidate.

In America Latina, ad esempio, ho notato una passione viscerale, quasi ribelle, per il racconto che viene dal basso, dalle comunità, dalle vite reali della gente comune. Questa energia si traduce in set spesso più raccolti, più “veri”, dove il cuore batte forte anche se i budget non sono hollywoodiani. In Italia, purtroppo, a volte vedo un po’ più di burocrazia e un’attitudine più “protetta”, mentre lì la creatività deve spesso fare da motore primario, e questo mi ha insegnato a valorizzare ogni piccolo dettaglio, ogni sguardo, ogni silenzio.

Inoltre, il lavoro all’estero mi ha spinto a confrontarmi con lingue e culture diverse, un’esperienza che amplia gli orizzonti e aiuta a diventare artisti più completi e flessibili. Ogni set è una nuova famiglia, una nuova sfida, ma anche una fonte inesauribile di ispirazione.

Insomma, vivere il cinema fuori dall’Italia significa abbracciare il cambiamento, imparare ad adattarsi, ma soprattutto coltivare una passione che va oltre le difficoltà, perché il racconto autentico è ciò che unisce davvero tutti noi artisti, ovunque nel mondo.




Quale è stato un momento preciso in cui hai realizzato che il tuo talento poteva avere spazio anche su set internazionali?

Il momento in cui ho capito davvero che il mio talento poteva avere spazio anche su set internazionali è stato quando ho ricevuto il premio dal Bogotá Web Fest. Ero in Italia quando è arrivata la notizia, ma quel riconoscimento veniva dalla Colombia… e proprio due settimane prima avevo conosciuto Lucho Velasco, un regista e attore colombiano molto noto nel suo Paese, che mi aveva parlato di un progetto da realizzare tra Italia e Colombia.

Lì ho sentito che non era un caso. Era un richiamo potente, una conferma che arrivava da un’altra parte del mondo, ma che rispondeva a qualcosa che io avevo già iniziato a percepire dentro di me. È stato come se l’universo mi stesse dicendo: “Vai. È il tuo momento.”

Quel premio non era solo un riconoscimento, ma una soglia: mi ha aperto le porte a un percorso nuovo, fatto di set multiculturali, di progetti in spagnolo e inglese, di incontri profondi e collaborazioni che hanno arricchito la mia arte e la mia visione.

Ho capito che quando resti fedele alla tua missione, quando comunichi con verità, non esistono confini. Il linguaggio dell’anima, della passione e dell’impegno è universale. E da quel giorno, ogni volta che varco un confine, lo faccio sapendo che non è mai solo geografia. È destino.



C’è qualche nuovo progetto come attrice a cui stai lavorando e di cui ti va di svelarci qualche dettaglio in anteprima?

Sì, sto lavorando al progetto cinematografico “Arsenio”, in cui interpreto Vanessa Furstenberg, l’antagonista del film. È un personaggio che mi ha subito affascinata per la sua intensità e per le molte sfaccettature psicologiche che porta con sé. Vanessa è una donna cinica, spietata, ricca e viziata, pronta a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo: prendere il controllo dell’azienda di famiglia.

Per farlo, arriva a commissionare un colpo al ladro più famoso di tutti i tempi: Arsenio Lupin. Il film gioca abilmente tra noir, azione e tensione psicologica, e Vanessa incarna perfettamente la figura della “dark lady” contemporanea: elegante, manipolatrice e pericolosa.

Abbiamo già girato un teaser che ha messo in luce tutta la potenza visiva e narrativa del progetto, e nei prossimi mesi inizieranno le riprese principali. È un ruolo che mi permette di esplorare lati del mio mestiere attoriale più crudi, lucidi e strategici, lontani dalla vulnerabilità ma pieni di potenza scenica.



👉 Chi vuole vedere il teaser può trovarlo sul mio profilo Instagram: @ireneantonucci_official


Hai anche condotto programmi televisivi, come A Voice for Music. Cosa ti affascina di più del ruolo di presentatrice rispetto a quello di attrice?

Essere presentatrice è una bella sfida: devi saper comunicare in modo diretto, coinvolgere il pubblico e mantenere sempre alta l’attenzione. Mi piace l’idea di costruire un dialogo reale e autentico, dove ogni parola conta e la presenza è fondamentale.

Detto questo, la recitazione resta la mia vera passione: interpretare un personaggio, entrare in un mondo diverso e vivere storie che mi trasformano è qualcosa di unico, che nessun altro ruolo può davvero sostituire. Fare l’attrice è un viaggio dentro me stessa e negli altri, un’esperienza che mi nutre profondamente.

Quindi, sebbene apprezzi molto l’esperienza come presentatrice, la mia casa rimane il set e il teatro, dove posso esprimere tutta la mia creatività e autenticità.

Essere attrice ti ha aiutata a essere una conduttrice più empatica e coinvolgente? O sono due linguaggi completamente diversi per te?

Sì, recitare e condurre sono linguaggi diversi, ma per me si influenzano molto a vicenda. Il lavoro da attrice mi ha insegnato a entrare in profondità nelle emozioni e nelle storie degli altri, e questo mi aiuta molto quando conduco, perché posso davvero connettermi con le persone e con il pubblico in modo più autentico.

Inoltre, proprio grazie a questa esperienza, ho sviluppato percorsi di coaching per aiutare chi vuole migliorare nella comunicazione, specialmente nel public speaking, perché credo che saper comunicare con efficacia e passione sia una competenza preziosa, in qualunque ambito. Se qualcuno fosse interessato, può trovare informazioni sui miei canali social.



C’è un progetto televisivo che sogni di condurre o un format che vorresti creare e portare sul piccolo schermo?

Onestamente, il mio sogno resta quello di interpretare grandi ruoli da attrice. Amo la sfida di entrare nei personaggi, di raccontare storie che emozionano e lasciano un segno. La conduzione è stata una bella esperienza, ma il palcoscenico, il set e la macchina da presa sono il mio vero habitat creativo. Quindi, se dovessi scegliere, preferirei sempre un ruolo intenso e complesso da portare in scena.









Hai avuto modo di esprimerti in diversi ruoli: attrice, conduttrice, regista e scrittrice. Quali di questi ruoli ti ci vedi di più?

Il filo conduttore che lega tutte le mie esperienze è la comunicazione, vista come uno strumento potente per ispirare e risvegliare le coscienze. Che sia attraverso il teatro, il cinema, la televisione o la scrittura, il mio obiettivo è sempre stato quello di aiutare le persone a ricordare chi sono veramente e a ritrovare il proprio scopo in questo mondo.

Credo profondamente che l’arte non serva solo a esprimere emozioni o raccontare storie, ma sia soprattutto un veicolo per apprendere lezioni profonde e promuovere un cambiamento collettivo. Per me, l’arte è un atto di responsabilità: non è soltanto coltivare una passione personale, ma impegnarsi per qualcosa di più grande, che va oltre il singolo individuo.

Il teatro mi ha insegnato il valore della presenza autentica, il cinema mi ha insegnato a entrare nell’intimità delle emozioni, mentre la scrittura è la mia forma per lasciare una traccia duratura, condividere ciò che ho imparato e ispirare gli altri a fare lo stesso.

Ogni progetto è per me una testimonianza che l’arte può unire, trasformare e ricordarci che, al di là delle differenze, siamo tutti parte di una missione comune: costruire un mondo più consapevole, empatico e coraggioso.








Quale consiglio daresti ad una donna che vuole intraprendere un percorso lavorativo simile al tuo?

Il mio consiglio è di partire dalla consapevolezza di sé. Non limitarsi a studiare la tecnica, ma dedicare tempo all'introspezione: interrogarsi sulle proprie emozioni, esperienze e motivazioni. Questo non solo arricchirà le performance, ma aiuterà anche a navigare le sfide del settore.

Inoltre, è fondamentale essere comunicatrici di se stesse, trasformando le proprie idee in azioni concrete, affinché anche gli altri possano credere in noi. La preparazione e l'esperienza sul campo sono imprescindibili, così come la consapevolezza di come funziona la macchina del cinema in ogni suo reparto .

Infine, ricorda che l'arte è un atto di responsabilità. Non si tratta solo di coltivare una passione personale, ma di impegnarsi per un obiettivo più grande, che trascende il singolo individuo. Ogni progetto è una testimonianza che l'arte può unire, trasformare e ricordarci che, al di là delle differenze, siamo tutti parte di una missione comune: costruire un mondo più consapevole, empatico e coraggioso.



Un saluto ai lettori di Victoria’s Grace?

Ai lettori di Victoria’s Grace dico: continuate a coltivare la vostra passione con coraggio e autenticità. L’arte, in tutte le sue forme, è uno strumento potente per trasformare il mondo e, soprattutto, per trasformare voi stessi. Non smettete mai di cercare la vostra voce e di farvi sentire, perché ogni storia raccontata ha il potere di ispirare e risvegliare. Il futuro è vostro: afferratelo con determinazione e amore. Un abbraccio forte!











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